Sradicamento e solitudine
Molti internati e bambini in cura si sono sentiti sradicati, abbandonati e isolati. Anche se non erano soli, soffrivano costantemente di solitudine. Non sempre riuscivano a tenersi in contatto con genitori o fratelli e ricevevano poche visite. Senza contare che gli istituti, per molto tempo, hanno fatto tutto il possibile per evitare che i residenti diventassero amici.
Tagliati fuori dalle loro stesse vite
L'internamento amministrativo o il collocamento in famiglie affidatarie strappava le persone oggetto di tali coercizioni dal loro ambiente familiare e sociale e le rialloggiava in luoghi lontani da casa, il che accentuava il loro senso di isolamento.
Solitamente le autorità pubbliche li allontanavano dal loro ambiente familiare e li separavano dai fratelli e sorelle, al fine di evitare una «cattiva influenza». Questa pratica era molto efficace, in quanto i trasporti non erano quelli di oggi: fino a non molto tempo fa, erano in pochi a possedere un’auto e viaggiare in treno sovente era troppo costoso. Anche le visite erano rare e ci è voluto molto tempo affinché gli istituti smettessero di controllare ogni lettera...
Trasferiti di continuo
Molte persone hanno subito diverse misure coercitive e diversi trasferimenti da un istituto all'altro, il che rinforzava la sensazione di non essere il benvenuto da nessuna parte e di essere abbandonati all'arbitrarietà.

Kinderkrippe Arbon (TG), 1927; Pflegefamilie Koblenz (D), 1927; St. Iddaheim, Lüttisburg (SG), 1929; Mädchenheim Tannenhof, Zürich, 1936; Psychiatrische Poliklinik, Zürich, 1936; Guter Hirt, Strassburg (F), 1936; Guter Hirt, Altstätten (SG), 1936; Realta, Cazis (GR), 1936; Dienststelle, Fulenbach (SO), 1937; Mädchenheim Tannenhof, Zürich, 1937; Monikaheim in der Hub, Zürich, 1937; Dienststelle, Zürich, 1937; Realta, Cazis (GR), 1937; Bellechasse, Sugiez (FR), 1939; Dienststelle, Oberehrendingen (AG), 1940; Guter Hirt, Lully (FR), 1940; Asyl Belfaux (FR), 1943; Marsens (FR), 1944; Beverin, Cazis (GR), 1944; Realta, Cazis (GR), 1944; Bellechasse, Sugiez (FR), 1944; Dienststelle, Niederlenz (AG), 1945; Bellechasse, Sugiez (FR), 1948
Le persone potevano essere spostate per diversi motivi, ad esempio per un comportamento considerato inappropriato o per tentativo di fuga. Dal 1927 al 1951, Katharina M* fu collocata in 24 luoghi diversi: in centri per l'infanzia, in cliniche psichiatriche, in centri di formazione professionale, in carceri, in famiglie affidatarie e come domestica – non solo in tutte le regioni della Svizzera, ma anche in Germania e in Francia. Alla morte di sua madre, il padre l'affidò insieme ai fratelli e alle sorelle a un asilo nido di Arbon (TG). Le autorità nominarono un tutore: Alfred Siegfried, il direttore della l’Opera assistenziale «Bambini della strada».
Diventata madre in giovane età, Katharina M* cercò di cavarsela da sola con i suoi figli, fino a quando non venne nuovamente internata. All'età di 30 anni si trasferì da suo padre. Da quando non è più oggetto di misure coercitive, a quanto pare. Non si sa, se abbia mai potuto rivedere di nuovo i figli che le erano stati portati via.
«Non si può essere più soli di così».
Sentire la mancanza della propria famiglia fa male. Essere strappati dal proprio ambiente è infatti un’esperienza dolorosa, soprattutto per i bambini e i giovani.
Da bambina, Uschi Waser è stata collocata in 20 centri e quattro famiglie affidatarie. Ha scritto la poesia «L'amore materno» all'età di 15 anni, quando era internata presso l'Istituto Educativo Femminile «Zum Guten Hirten» a Altstätten (SG).
Prendiamo parola in questo film
Tagliati fuori dalle loro stesse vite
L'internamento amministrativo o il collocamento in famiglie affidatarie strappava le persone oggetto di tali coercizioni dal loro ambiente familiare e sociale e le rialloggiava in luoghi lontani da casa, il che accentuava il loro senso di isolamento.
Solitamente le autorità pubbliche li allontanavano dal loro ambiente familiare e li separavano dai fratelli e sorelle, al fine di evitare una «cattiva influenza». Questa pratica era molto efficace, in quanto i trasporti non erano quelli di oggi: fino a non molto tempo fa, erano in pochi a possedere un’auto e viaggiare in treno sovente era troppo costoso. Anche le visite erano rare e ci è voluto molto tempo affinché gli istituti smettessero di controllare ogni lettera...
Isolamento e solitudine
Gli istituti spesso erano situati al di fuori delle località principali e quando la loro funzione lo richiedeva venivano recintati. Le direzioni di alcuni centri giustificavano questa vita in isolamento come strategia volta a proteggere i residenti dalle cattive influenze. Fratelli e sorelle venivano separati e non avevano più notizie gli uni degli altri. Questa politica di dispersione delle famiglie colpì in particolare gli Jenisch: dal 1926 al 1972, nell'ambito dell’Opera assistenziale «Bambini della strada» della Pro Juventute, più di 600 bambini Jenisch furono collocati in istituti e famiglie affidatarie, con l'obiettivo di sedentarizzarli. Questa politica di isolamento poteva anche servire a far partorire delle donne in segreto, come accadeva nel Foyer mère-enfant Saint-Joseph de Belfond (JU).
Visto che non tutti i Cantoni disponevano di una gamma completa di istituti, accadeva che i collocamenti venivano affidati in un altro Cantone o addirittura in un'altra regione del Paese. Per molto tempo, le visite erano consentite col conta gocce e i divieti di visita erano una punizione comune in caso di non rispetto delle regole. In molti istituti le visite dovevano essere effettuate sotto la supervisione del personale.
Le persone incaricate di monitorare la situazione dei bambini, come i tutori/ tutrici, raramente incontravano i loro pupilli ed era molto raro che instaurassero un rapporto di fiducia. Lo scopo principale delle loro visite era d’ordine finanziario o amministrativo. Essendo molto difficile riuscire a stringere amicizie con altre persone, gli internati soffrivano l'isolamento, sebbene le strutture fossero densamente popolate: arrivi e partenze si susseguivano e quando una persona partiva, raramente si veniva a sapere dove veniva trasferita. Un residente che instaurava una relazione personale e un legame affettivo con un educatore/educatrice o un impiegato/a poteva considerarsi fortunato.
Scrivere per combattere la solitudine e lo sradicamento
Le lettere erano spesso l'unico legame con il mondo esterno. Per alcuni internati la scrittura era una valvola di sfogo: permetteva di sospendere la solitudine almeno per un istante. Le lettere erano anche un modo per chiedere ai parenti di inviare all'istituto prodotti inesistenti o razionati, come sapone, tabacco o cibo.
Nella stessa maniera delle visite, anche la corrispondenza era monitorata. Fino agli anni ‘70, la maggior parte degli istituti applicava una censura rigida: il personale apriva le lettere degli internati e, a seconda del loro contenuto, le tratteneva o le inoltrava ai servizi amministrativi. La censura non era solo un'interferenza nella privacy dei residenti, ma in alcuni casi significava anche una violazione dei diritti individuali. Non era infatti raro che la censura impedisse agli internati di comunicare con i loro rappresentanti legali.
Anche dopo la revoca della misura coercitiva, queste persone continuavano a subire le conseguenze degli anni trascorsi in istituto, durante i quali le autorità limitavano o proibivano i contatti con le loro famiglie e amici e gli impedivano di stringere relazioni. Quando riacquistavano la libertà, erano isolati e non disponevano di alcuna rete sociale. In diversi non sapevano nemmeno dove vivessero i loro genitori, figuriamoci se avessero fratelli o sorelle. La sensazione di solitudine e di abbandono perdurava in maniera molto forte e spesso per tutta la vita.